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lundi, 05 août 2013

IL MANIFESTO CONTROLETTERARIO

     La Controletteratura fu sempre risolutamente moderna – nel senso rimbaudiano del termine –, vale a dire in anticipo non solo sul suo tempo, ma sul tempo stesso.

     Essa è una resistenza al pensiero lineare, una certa idea di scrittura. Per la controletteratura, il romanzo è una sfera.

     Partire, lanciarsi all’avventura, rendere vive le parole; essere, rimembrare qualcosa non ancora avvenuta ; scrivere, ricordare ciò che deve necessariamente sopraggiungere – in quanto la scrittura è conversione, capovolgimento, rovesciamento: trasmutazione della linearità in sfericità.

 

Quel desiderio di scrivere anteriore al desiderio

     Questa scrittura trasfiguratrice è opera dell’uomo su se stesso intanto ch’egli supera il suo stato presente, lo intaglia – ch’egli entra in veggenza iniziandosi alle sublimi piaghe di un eterno ricominciamento. 

     La controletteratura proviene da quel desiderio di scrivere che anticipa il desiderio. E’ una gnosi lirica, altro dire non posso – poiché non si deve dire tutto.

     Ogni lingua possiede il profumo particolare di quella nostalgia nella quale si origina la scrittura – Hӧldering, in tedesco così puro che ne diviene per sempre irrespirabile; e l’aroma così provenzale dell’italiano di Dante, l’inglese focoso di William Butler Yeats.

     Tutte queste parole, che provengono dall’effusione nostalgica dell’animo, sono gl’invisibili ancoraggi delle scritture controletterarie, le cui orifiamme non si lasciano leggere che in certo stato di quiete della mente.

     Perché la controletteratura è la reazione del linguaggio contro l’entropia letteraria, una resistenza intima delle parole per preservare la lingua, impedire che trasgredisca i confini nihilisti al di là dei quali il ricordo dell’essere si smarrisce.

 

L’unico sentiero amoroso

     Scrivere è limare le parole. […].La reazione controletteraria s’avanza per sentieri traversi, obliquità ultime del ritorno alla vita – ritorni sconsolati, sviamenti ultimi, iniziatici, verso l’unico sentiero amoroso, deliziosamente imporporato, del vivente semiologico. Perché la controletteratura annunzia […] l’irruzione dell’eternità nella storia, il tempo della “iero-storia”, - secondo lo straordinario neologismo di Henry Corbin.

 

Tra il dio nascosto del mondo e il mondo dell’uomo

     Scrivere è fantasticare, ma non è sognare – perché nel fantasticare lo spirito è presente, e il fantasticare è lo stile del sogno. Si tratta di fare in modo che la parola si commuova della sua propria immagine interiore: così concepita, la scrittura si avvicina alla preghiera.

     La funzione delle parole è femminile, ambivalente – le parole sono simboli; e la catena dei significanti può alienare l’uomo o liberarlo. Esiste una logica fantomatica della lingua capace di riflettersi ora nelle tenebre automatiche dell’incoscienza, ora nella luce spirituale della sovracoscienza.

     Le parole posseggono una loro propria dinamica che si dispiega e si sviluppa in virtù dell’energia ad esse inerente. Di fronte a questa trascendenza della lingua, l’eroismo della scrittura consiste nello scoprire il luogo stesso dell’apprensione della lingua – luogo unico e verginale dove si lascia catturare il liocorno leggendario.

     Perché tra l’intellegibile e il sensibile, vale a dire tra il dio nascosto del mondo e il mondo dell’uomo, risiede la realtà utopica della scrittura, la dimensione sacra dell’inter-detto, la corporeità dello spirito che è la dimora della presenza divina nel nostro mondo: la “Sophia” della gnosi cristiana, la “Shekhina” dei cabalisti ebraici, la “Fitra” dell’Islam interiore. 

     Questo luogo della meditazione, ai margini del silenzio, è quello delle rivelazioni e delle trasfigurazioni, lo spazio vuoto in cui avviene la scrittura eternamente femminea il cui atto archetipico è la rimembranza del corpo di Osiride da parte di Iside. Qui lo scrittore vede attraverso lo sguardo dell’anima del mondo.

     Nella letteratura, il centro della persona dello scrittore è rilegato nell’incoscienza. Al contrario, dalla controletteratura lo scrittore viene proiettato in una sovracoscienza scritturale, traduttrice dell’invisibile nel visibile.

     Questa medianità controletteraria è una mistica dell’uomo vero. Lo stile è l’impensato della letteratura. E’ una capacità spirituale donata allo scrittore: il carisma della propria solitudine.

     Ma allora, quale solitudine per il lettore e quale stile di lettura ? E questo semplice quesito: come potrebbero due solitudini incontrarsi, amarsi ?

     La letteratura ha annientato se stessa nella negazione dello stile, mentre la controletteratura rimaneva sempre nell’interstizio delle solitudini, in quel luogo d’amore ove s’eterna il desiderio degli amanti – perché l’intimità non può nascere che nella distanza.

     Il principio della controletteratura desiderante non è il piacere: lo stile è per lei un fine in sé, la porta del regno. La certezza dello stile rende vane le esitazioni romantiche tra prosa e poesia che infiorano il discorso della critica letteraria.

 

Il campo di trasformazione infinita

     Lo stile, l’atto controletterario stesso, è il solo trasformatore del testo considerato come il campo di trasformazione infinita di una frase unica. La modernità si è edificata sul rifiuto di pensare ciò che la eccede. La funzione della letteratura sarà stata quella di annullare ogni via amorosa della lingua, inafferrabile e insensata ai suoi occhi.

     Eppure, è ad una lettura anagrammatica che chiama il testo controletterario; lettura inaudita, che provoca l’insorgenza del Nome nuovo. Solo un lettore zelante saprà leggere la scrittura eretica, eccezionale, questa lingua solitaria, sgorgata dal cuore del Verbo, questo contro-canto trovadorico.

     Tanto quanto insurrezionale, la controletteratura sarà quindi resurrezionale, facendo opera di vita di ciò che, per la letteratura, altro non è che lettera morta.

     Ciò che non rientra in campo letterario, l’alterità controletteraria, giammai sarà la lingua del padrone e dello schiavo.

     Essa è scrittura della risurrezione della parte respinta, alienata e quasi abolita del nostro essere : un’ultima eleganza d’essere, una certa bellezza dopotutto.

 

Traduzione dal francese di Letizia Fabbro

(Alain Santacreu, Le Manifeste contrelittéraire, 1999. )